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Questa pagina è per chi desidera leggere un breve racconto

Storie ironiche e sinistre, il mio modo di scrivere, metrica e memorie, per chi ama il pathos, per chi vuol sorridere, oppure... 

DON MARINO (racconto ironico e in rima sull'umorismo di Dio)

 

Don Carlo Marino parlava sempre con Dio, ma Dio non gli rispondeva, manco a pregarlo.

Don Marino continuava a farlo, cocciuto, caparbio, ostinato e risoluto, ma Dio, così sempre indaffarato, non gli rispondeva, stava muto e dava l'aria d'ignorarlo.  

Don Marino Carlo non si sciupava di coraggio; vagando per la chiesa del villaggio, non perdeva la speranza di ottenere udienza e tutte le sere, ciondolando, andava avanti un paio d'ore parlottando in direzione del Signore

Era un rito trito e ritrito, una preghiera senza pretese, ma che si replicava da ben trent'anni e mediamente, per trenta volte al mese.

 

Don Carlo Marino era il buon pastore degli ottocentoventi residenti di un freddo paesino piemontese e tutti gli mostravano calore, sebbene fosse lui d'origine pugliese.

Da una vita, Don Marino predicava tra quelle mura spoglie, consacrava marito e moglie, battezzava, e quando il destino chiamava a dura dipartita qualche membro parrocchiale, tristemente celebrava il funerale.

Da una vita Don Marino dava ascolto ai peccati di ogni cittadino, confessava e non faceva renitenza nel dare l'indulgenza.

 

Predicava e celebrava messa, poi, puntuale come una promessa, la sera si appartava e ripeteva la sua monotona preghiera, più o meno sempre la stessa.

Don Carlo Marino parlava sempre con Dio, ma Dio non gli rispondeva, manco a stressarlo.

Se Dio non replicava, c'è da scusarlo, ma Don Carlo Marino, puntuale come una cambiale e tenace come un tarlo, persistente, a volte petulante, continuava a disturbarlo tradendo una mediocre vocazione. Ripeteva l'orazione, svelando così il perché della scelta presa in consorte; per garantirsi una morte alquanto duratura un cambio di una vita astinente e pura.

 

Don Carlo Marino aveva paura e umanamente non si può dargli torto, paura di vivere per poi esser morto.

Dio, che, per via di quel timore riscuoteva gran successo, ma che in fondo amava il buonumore, quel Don Carlo, starlo ad ascoltare tutte le sere dopo il tramonto, per Lui che aveva altro da fare, era un vero tormento.

-Ti prego, o Padreterno, dammi un segno che riveli la mia sorte dopo la morte, io che fuggo dalla perversione, dimmi, dopo la pensione vivrò in eterno nel regno dei cieli? Io che sono quasi illibato, morigerato e puro, io che diserto ogni piacere della carne anche se ben vorrei, talvolta approfittarne e che prego la Madonna, ma aspiro al ventre esperto di una donna, magari la Pina, quella donna libertina che, quando alla mattina mi confessa la sua notte depravata e spudorata mette in mostra il seno quasi nudo, io sudo e vengo rosso. Io che ho represso i piaceri del sesso, io che sopisco il mio impulso naturale e lo lenisco con qualche veniale massaggio manuale, io che mai mi sono suddiviso, dopo la morte avrò in premio il mio posto accanto a te nel Paradiso? -

Don Carlo parlava sempre con Dio, che non gli rispondeva, manco a pagarlo

 

La supplica risultava deprimente, ben poco divertente, travisata, fraudolenta, venale a dismisura e assai ripetitiva, bisognava pur trovare una cura.

 

Don Marino parlava con Dio, placava il suo io, temeva il trapasso, non faceva del sesso, sognava la Pina, e un lungo amplesso poi, la mattina chiedeva perdono, temeva l'Inferno, bramava l'eterno, rompeva i fagotti poi, in una piovosa serata d'inverno, si svolsero i fatti...

 

...Erano circa le otto quando, fece l'entrata una visione celeste, una bella signora castana tutta inzuppata, dal cappotto alla veste, fin in giù alla sottana. La giovane donna entrò dal portale, fece un inchino, gli venne vicino e si poggiò stremata, tutta bagnata, ma molto sensuale.

 

Don Carlo Marino, che stava parlando con Dio, per una volta, smise di farlo.

- Cosa vi spinge in chiesa a quest'ora di sera e dite, donde venite? - Chiese Don Carlo alla bella straniera, squadrando la mora con occhio gagliardo, non proprio di un prete.

 

- Padre, alla buon'ora, ho avuto un guasto al mio furgoncino, cammino da un'ora, mi scusi il pretesto, ma è buio pesto e vien giù a cielo aperto. Cercavo un tetto al coperto, un luogo protetto, sono stremata..., senta il mio petto, fuori c'è un'aria intirizzita e sono tutta  ghiacciata..., senta che dita, scroscia giù a catinelle..., senta la pelle senta la coscia, e tutta bagnata fin giù alla sottana..., senta la lana -.

Sfiorando con mano gelata il prelato, la bella sperduta venuta per caso, portò l'altra al naso, smorzando un greve starnuto. 

 

Don Carlo Marino non si fece pregare, portare assistenza era più che un dovere, la fece passare in uno stanzino laddove la donna si potesse asciugare, ma quando ella prese a spogliarsi senz'alcuno pudore Don Calo Marino non riuscì a ritirarsi, stregato davanti a quello splendore d'insenature e tonde colline invitanti. Anziché fuggire, guardò, e si fece avanti.

 

Mai egli adocchiò siffatta bellezza; di fronte alla nuda visuale fu facile preda di una disfatta carnale e quella ragazza, senz'altro amante del gioco gaudente, in meno di niente, a Don Carlo, ch'era ancora un bell'uomo, offrì in dono il suo grembo bruno. A quel gesto invitante non avrebbe retto nessuno.

 

Infine Don Carlo conobbe il piacere di una notte d'amore e il prete sedotto, dopo tre ore d'amore a dirotto, dopo plurimo amplesso, appagato nel sesso dal duraturo peccato, stremato e con il cuore in affanno, confuso nel senno e già innamorato, ansimando le chiese:

- Chi sei, chi ti manda o dolce fanciulla? Mai io trascorsi notte più bella -.

- Io sono la morte che ti porta via e chi mi manda è il nostro Padrone, Lui mi comanda e la morte riscuote pigione in un solo momento tutto quel tempo che ti è stato dato da quando sei nato. Non ti crucciare per la tua sorte o grazioso prelato, tu sei fortunato. Con Don Marino Egli è stato clemente, non Gli pareva carino troncarti la vita senza omaggiarti di quel peccato che malamente hai saputo negarti -.

 

L'uomo sentiva la fine imminente e da poco venuto (troppo sovente), si apprestava a partire di nuovo, ma per ben altro pellegrinaggio, però  stava a sentire, ancora appagato, il fraseggio sempre più fioco di quella sensuale, magnanima morte, chiedendosi con un sorriso se già sulla Terra non vi fu il Paradiso.

 

-  O Don Marino, prima d'intrufolare l'anima tua nel mio furgoncino, Egli che è sempre assai informato e tutto sa, mi ha incaricato di dirti che non è necessario pagare alla vita un così caro salario per anelare un buon posticino nell'aldilà. Nostro Signore ti manda a dire che, di tanto in tanto, anche a Lui, piace fare all'amore. Peccare è sprecare tutta una vita un lungo rimpianto, rimandare in eterno temendo l'Inferno e sottrarsi all'incanto di ciò che è l'amore; smarrirsi, non ascoltare la voce del cuore, mutare in peccato anche i desideri, multarsi, mangiare scondito e poi spirare pentito, senza avere vissuto .

 

E adesso muori, muori contento, d'interrogare Dio non è più il momento, tra qualche istante avrai la risposta ad ogni richiesta senza più parlottare con il naso girato all'insù infine, non più.

...In confidenza, c'è una lagnanza; nostro Signore ne aveva proprio abbastanza di quel discorso casto e pudico, porta pazienza se te lo dico, ma è ben per questo che mi ha spedito ad accorciare il tuo già breve mandato. Al tuo corpo, precoce defunto, spetta un cofano in noce, ben conservato in un tempio in granito, una foto del caro estinto, una data... un fiore finto..... Mi ha fatto calare, ma non solo per quello, per farti anche capire quanto il mondo che lasci è da apprezzare per quanto è bello.

 

E già che hai pagato l'andata senza ritorno, ti aggiorno su di una improvvisata; per te che la vita hai trasformata in un soggiorno incoerente, ti dovrai abituare ad un altro mortorio, ad un penitente bivacco in Purgatorio.

Infine la morte prese commiato da questo racconto viziato da qualche stirato sonetto; s'infilò il corpetto, rimise il paltò e fece fagotto, raccolse i bagagli e se li portò.

Prima di sparire verso l'incerto le sfuggì un celato bisbiglio che mi parve capire fosse un velato, esperto consiglio.

- Ognuno conti i suoi sbagli e poi, con l'inserita di qualche rima innocente, canti alla vita, la renda gaudente, prima di andarsene via da quell'esistenza, che nella sua essenza è melodia, è suadente, dolce, fuggente poesia -.  

IL FOTOGRAFO BONETTI (questione di malintesi, inquadrature e scatti)

 

Era definito da tutti il re dello scatto. Il fotografo Bonetti era un indipendente sulla breccia dall’83. Specializzato in fatti di cronaca nera, ogni suo servizio era una sequenza di impareggiabili capolavori. Immagini rubate all'attimo fuggente, immagini forti, intense, nelle quali Bonetti riusciva ad immortalare la fugace incertezza della vita, lo stupore della sofferenza, la rabbia dipinta sui volti di fronte al drammatico appuntamento della morte.

Bonetti era un fotografo intelligente e arguto, un artista coraggioso, sempre al posto giusto, aveva un fiuto soprannaturale ed era sempre là, dove il male che solo la crudeltà dell'uomo e i disastri generati da un destino oscuro o da una lucida follia s’impadroniscono dei cervelli e interferiscono sull'apparente normalità delle genti.

Bonetti si gettava dentro le prostrazioni, tra le macerie fumanti e le pallottole, nel fuoco degli incendi, tra i crolli e i terremoti, sempre armato della sua nuova reflex, del teleobiettivo e null'altro, neppure paura.

Bonetti fermava il tempo in un'immagine, a volte l'ultima per molte vite, un'immagine che restituiva passione, disperazione sgomento e angoscia, poi riprodotta sulle copertine patinate dei più diffusi periodici. Fotografare era il suo lavoro, la sua passione, ma non solamente.

 

Nessuno era al corrente della sua spinta emozionale più segreta e ossessionante. Bonetti fotografava disastri da oltre trent'anni e possedeva un archivio eccezionale. Bonetti aveva un occhio fulminante ed il particolare non gli era sfuggito già dalle prime esperienze del suo dinamico e poliedrico lavoro. Un particolare a dir poco inquietante, col quale aveva ingaggiato da tempo una lunga e silenziosa sfida senza quartiere. Analizzando gli scatti che ritraevano raccapriccianti avvenimenti, Bonetti aveva individuato una figura troppo ricorrente.

Si trattava di un personaggio inspiegabilmente presente su molti dei teatri che avevano visto morire molta gente. Un uomo apparentemente giovanile, con capelli biondi lunghi fino alle spalle che vestiva sempre un lungo impermeabile scuro, e calzava occhiali da sole, sia d'estate che d'inverno, ovunque si trovasse. Un individuo quasi normale che si mescolava tra i presenti, ma fotografato in duecento scatti tra le tante migliaia della sua lunga carriera.

 

La prima immagine lo ritraeva in lontananza sullo sfondo di un doloroso e mai chiarito incidente ferroviario accaduto nell'85, da quell'anno in poi, il biondo compariva spesso e sempre in distanza, in concomitanza di un avvenimento delittuoso e scellerato, caratterizzato da piccole o grandi forme di spietata e spesso inspiegabile violenza. Il fatto era già di per sé piuttosto angosciante, ma la cosa più sconvolgente era che, quell'individuo scovato nascosto in qualche immagine tra le tante foto, era sempre lo stesso, lo stesso in tutti i sensi, si mostrava apparentemente uguale, come se non fosse invecchiato mai.

 

L'uomo appariva spesso sul luogo di strani incidenti e casi di cronaca, dove inspiegabilmente pacifici elementi, persone quasi normali, di colpo sembravano impazziti, ammazzavano mogli, figli e parenti, poi si costituivano, quando non si toglievano la vita loro stessi, lasciando perplessi i vicini, i conoscenti e persino gli inquirenti. Attimi di follia omicida, come se un qualcosa di maligno si impadronisse delle menti più pacifiche e di un colpo le trasformasse in mostruose macchine assassine.

 

A nessuno sarebbe potuta saltare agli occhi l'incredibile ricorrenza, tranne a Bonetti. Bonetti teneva a mente tutti i suoi scatti, le tragiche immagini, decine di anni di sanguinosi eventi, e solo il suo occhio allenato aveva potuto rilevare tra gli spettatori, quell'angosciante esistenza che dava a molti avvenimenti una risposta tanto mostruosa quanto ancora inspiegabile nella sua misteriosa essenza.

 

Bonetti continuava nel suo mestiere: immortalare la morte a scatti, ma nel frattempo, a cinquantacinque anni, da tempo ormai inseguiva un altro obbiettivo, non quello della sua inseparabile Canon, un obbiettivo che andava oltre ciò che sviluppava nella sua camera oscura, ma non di meno oscuro.

 

Bonetti il fotografo, reporter dall'occhio eccezionale, voleva mettere a fuoco, voleva smascherare l'individuo che si aggirava funesto, avvolto nel suo nero impermeabile, voleva sorprenderlo, immortalarlo prima, durante e non dopo aver commesso qualche suo imperscrutabile disegno delittuoso, poiché era chiaro che a tanti sciagurati avvenimenti, quella presenza era legata ben più che marginalmente.

 

Nel corso degli anni Bonetti aveva scoperto che i disastri e i delitti più inspiegabili si muovevano sul territorio seguendo modalità sequenziali quasi ricorrenti: distanze chilometriche costanti, direttrici che geograficamente chiudevano triangoli regolari in luoghi ben focalizzati, tempi scanditi da fasi lunari, date dai numeri che, elaborati davano come comune denominatore sempre il 6, e avvenimenti differenti tra loro, ma a lungo andare cadenzati. Ritorni periodici e ritmici che potevano essere in qualche modo presagibili affidandosi ad un programma di statistica messo a punto dall'ingegner Zampetta, un amico, un genio dell'informatica dal talento sconfinato.

Grazie all'esperienza maturata ed al programma denominato "l'uomo in nero", già un paio di volte Bonetti aveva azzeccato i luoghi sbagliando di poco i tempi. Era giunto sul luogo dei misfatti appena in tempo per fotografare qualche sventurato ancora agonizzante, ma non per smascherare l'uomo in nero che poi, immancabilmente compariva di distante, ma solo dopo l'arrivo della gente e della polizia.

 

Questa volta il re dello scatto era certo di non fallire. Tutto combaciava: la data, il luogo, la distanza e il tempo, ma soprattutto l'avvenimento. Erano sei anni che non andava in fiamme un teatro che era a seicento chilometri di distanza dall'ultima concomitanza artistica, la direzione che portava al più recente atto di follia era quasi ad angolo retto e la prima della tragedia rossiniana sarebbe stata il 6 del mese di giugno, giorno di luna piena. Anche il computer aveva emesso il medesimo verdetto.

 

Bonetti arrivò per primo e da buon professionista si scelse la posizione strategica dalla quale poter controllare platea e balconata, indi attese. Puntuale come la disgrazia il biondo vestito di nero entrò confuso tra la bella gente e prese posto alla poltrona 36. Bonetti gli sparò tutto il suo rullino, ma in più d'una occasione gli parve che l'uomo, da dietro gli occhiali scuri, lo stesse osservando.

 

Quando si spensero le luci e si alzò il sipario, il biondino fece la mossa sospetta, ma Bonetti se era preparato. Prima della "prima" dell'opera drammatica, avrebbe evitato ben altra tragedia. Dopo aver posato la fedele Canon in cui vi erano le prove, mise mano ad un cannone vero, una calibro 9 sei volte carica, puntandola all'uomo in nero, intimandogli di non muoversi, ma il biondo non si fece fregare: a ciascuno il suo mestiere.

Il capitano Martinello era soprannominato "biondo il bello", aveva stile, andava in palestra, si tingeva i capelli, vestiva sempre un elegante impermeabile nero, non si levava i Ray-Ban nemmeno per dormire e nonostante i cinquant'anni scanditi, conservava quell'aspetto giovanile che certe persone, di natura hanno.

 

Il capitano Martinello era sulle tracce di qualche nesso tra inspiegabili e sanguinosi avvenimenti che si rincorrevano ciclicamente sul territorio e la presenza sul posto di quel fotografo che arrivava sempre per primo. Lo teneva d'occhio da quasi trent'anni, da quando era un giovane agente in borghese. Il capitano aveva individuato una sequenza temporale, un sincronismo scandito dalle lune e dalla cadenza del numero 6. Aveva indovinato il punto del prossimo misfatto, era in guardia, aveva notato d'essere stato focalizzato dal fotografo ed alla vista dell'arma aveva sparato per primo; probabilmente sarebbe stato decorato.

Quei due ci avevano quasi azzeccato.

 

Il volto più maligno della morte era seduto nella fila seguente, poltrona 18; sorridente sornione e soddisfatto. Un altro evento funesto, accaduto senza apparente causa s'era consumato proprio sotto al palco.

Giocherellare con qualche saltuaria storiella di sinistra follia era la sua umana debolezza, il suo trastullo, la sua distrazione in un lavoro ripetitivo e noioso, che altrimenti sarebbe stato di una noia... mortale.

 

carlo mariano sartoris

Qui, un sarcastico esempio su come si possano adoperare le parole per imbastire un  incalzante... DISCORSO DAL PALCO... 

 

Il discorso nasce lentamente, ponderato dalla mente

si sviluppa attorno alle parole mescolate saggiamente

quindi si affretta, incalza, stimola, incita, sveltisce

poi si ferma, riparte, descrive, dimostra, stupisce

si espande, si stringe, accelera e poi ritorna piano

cambia di tono, modifica il suono,

diventa più pieno si spinge lontano,

modifica il piglio, cambia di taglio,

il pubblico è sveglio, l'oratore ha un cipiglio

di un uomo sapiente, ha il gesto elegante,

la voce potente, lo sguardo ficcante,

il discorso è importante

si tratta del tutto come fosse di niente

e del niente come fosse essenziale

si parla del bene si parla del male

e la gente sente la pressione che sale

ognuno ritrova la risposta che vuole

il discorso è servito

condito, guarnito, salato e ben oliato,

scivola, striscia, si installa nel pensiero

quel che è falso e quel che è vero

non è rosso, non è bianco, non è nero

il discorso è un pallino contro il muro

rotola, gira, rimbalza e saltella,

si sviluppa con sapiente favella,

si incolla alla pelle, invade la folla 

ha un gusto di pepe, pinoli e cannella

il discorso è profondo

parte, torna, va dritto, gira in tondo

si parla del cielo, del mare, del mondo,

si scopre pian piano che è ancora rotondo

il discorso è un rigurgito di tante parole

è un vomito arguto che pian piano risale

il discorso sono frasi avariate

schifezze spacciate per primizie scontate

putride, marce, ammuffite, alterate

è un insieme di frasi studiate a tavolino

il discorso è apparecchiato: mozzarella e pecorino

il discorso si insinua, galleggia, serpeggia

il discorso rapisce, stupisce volteggia

il discorso si fa sempre più inquietante

il discorso si conficca nella mente

il discorso è spietato, violento

il discorso è un nutrimento

il discorso non finisce più

il discorso ha rapito e l'ostaggio sei tu

tu stordito, confuso, impietrito

tu adesso senti un disagio indefinito

nel ventre, nel cuore, nel sangue, nel cervello

risuona, rimbalza, tuona, è sempre quello

parla a te, strilla dal di dentro

gira, rigira, ti si rivolta contro

a te che non fai niente, vile, servile, inconcludente

ti devi ribellare, gridare, farti picchiare malamente

e farti ammazzare gridando forte in coro

che non è giusto, che non c'è più decoro

il discorso è studiato per questo

è vino rosso, pomodoro, pasta al pesto

il discorso porterà la gente in piazza

è matricina, carbonara, pasta e pizza

il discorso ha fame di cervello

semplice, pacato, umile e tranquillo

il discorso ha consumato e stai tornando a casa

non pensi più alla spesa, ai figli, alla tua sposa

sei caldo, nervoso, maldisposto

il discorso è sazio, pasciuto  satollo

ha cotto e sbranato un altro pollo

si smonta il palco, si abbraccia la gente

il discorso va a nutrirsi altrove, allegramente

testo

E poi, pezzi commemorativi, impegnativi omaggi ai grandi personaggi. Preso in prestito dalla rivista "Oltre magazine", uno dei tanti articoli in memoria di...

Dedicato a Mario Monicelli "il regista che non andò mai alle Maldive"

 

Indugio di fronte alla responsabilità di questo foglio. Non è ciò che sento nel cuore, ma è la testa che dovrà guidare le parole nel commentare la scelta di un uomo di spegnere a modo suo ciò che gli appartiene oltre ogni altra cosa: la sua unica e irripetibile vita.Dovrò distaccarmi dai ricordi di ciò che quell’uomo ha collocato nella mia memoria. Un uomo al quale devo alcuni dei momenti più esilaranti eppur formativi che hanno segnato la mia giovinezza:

 

Mario Monicelli, ben più che un regista. Mentre ne scrivo mi tornano in mente stralci di una memorabile intervista andata in onda su Raitre, alcuni anni fa. Un paio di giovani croniste ripercorrevano la carriera del maestro: proiettando immagini di alcuni film mostravano commenti di collaboratori e artisti che avevano avuto l'arduo piacere di lavorare con lui, e s’impegnavano nella provocatoria professione, cozzando con un monumento alla consapevolezza del sé.

 

Egli, il regista, ma soprattutto l'uomo, il protagonista, il non vecchio di novant'anni, elegantemente accomodato su di una poltrona che ricordo rossa, rifiutava con forbita sagacia il prematuro epitaffio, l'onore alle armi, e ancora stupiva me spettatore, quanto le due ragazze, affascinate, sopraffatte da una personalità per niente appannata.Mi ricordo che, da quel maturo Monicelli, era emerso chiaramente già da allora il suo rapporto con la vita e soprattutto con la morte. Aveva apertamente dichiarato di non averne paura, di non essere soggetto al timore e al ricatto dell'aldilà. “Cose che si scopriranno a suo tempo” aveva detto con altre parole.

 

Parole che avevo condiviso e che mi erano apparse profetiche. Parole di un uomo pragmatico, attaccato alla vita e a tutto ciò che il meglio può regalare questo bel tempo che ci è dato da adoperare. Piegandomi con massimo rispetto di fronte alla scelta di essere egli stesso il proprio carnefice, oso dire che l'uomo, di questa sua vita ne abbia fatto un'abile regia, e della fine del lungometraggio ne abbia saputo ricamare un, seppur violento, magnifico finale.

 

Non è cosa da tutti essere così coerenti tra parole che si dicono in pubblico e certe scelte che richiedono molta forza, molto coraggio. In questo caso la parola suicidio, nel mio modo di vedere certe cose ha un altro nome che in me suscita ammirazione.È facile morire quando si è vecchi davvero, quando la mente è svanita, lontana dal corpo e tutti i suoi desideri, dalle umane voglie.

 

Quando la falce cala a mietere i resti di ciò che fu e di cui non resta nemmeno più il ricordo, oppure, quando lo sconforto di un corpo devastato allontana ogni suadente richiamo del vivere.Terribile e altrettanto epico dev’essere invece, dover scegliere l'attimo finale con rassegnata lucidità; il più importante della vita. Sceglierlo controvoglia, con cosciente, seppur malinconica consapevolezza, poiché così si è stabilito nella più vera della facoltà di un libero arbitrio: scegliere perché il momento è quello.È il momento in cui la mente dice al cuore che è venuto il tempo di andare, di smettere d’esistere, poiché di meglio non c'è nient'altro da fare, perché la strada percorsa è stata fatta e di fronte non rimane che un breve, inevitabile, previsto ed umiliante tempo di farmacologico peggio.

 

Non mi permetterei di scrivere così se io per primo non fossi stato lusingato a suo tempo e per motivi ben dettagliati, dal sinistro fascino del trapasso meditato.Non mi permetterei di scrivere tutto questo se non mi sentissi quasi autorizzato a farlo da quando, nel corso dell'intervista, spiazzando ogni commento sulla sua età, Monicelli si definì con mirabile ironia: l'ultimo dei registi” morenti”. L'ultimo della sua specie.

 

Non mi permetterei se di una sua frase non avessi fatto un assioma del vivere. Alla domanda: - se nella sua vita avesse ragionato più con la testa che con il cuore - , Mario Monicelli rispose con la velocità di colui che sa quel che dice: “con la testa ho tenuto a bada le impulsività del cuore”. E da lì il maestro mi fu maestro in quello.

 

Aveva 90 anni e quello show televisivo sembrava un omaggio alla carriera, ma a me pareva che, il cinismo della tv, volesse scrivere in quel momento il necrologio del personaggio, così da farne scoop, sensazione, in attesa di un breve conto alla rovescia. Mi fu evidente che il soggetto non fosse affatto d'accordo. L'uomo era pieno di vita e di energia, di saggezza, di consapevolezza del sé e della sua lunga vita. Non aveva affatto l'intenzione di considerarla finita.

 

Oggi che il destino è stato scritto dal volere e non dalla casualità, la mia ammirazione va ben oltre ogni tristezza. È un gran privilegio poter vivere e morire così, come meglio non si può fare. Questo per me è il momento del tributo, è l'ora del ringraziamento.All'epopea di “amici miei” il maestro Monicelli è stato sinistro ispiratore di non pochi scherzi messi in atto da me e… dagli amici miei, a quel tempo burloni universitari, satanassi di una goliardia che non esiste più. Dell'armata Brancaleone, sempre in quel tempo di universitari fuori corso, se ne fece un'interpretazione autarchica, attingendo ai personaggi e al linguaggio, rendendo la nostra giovinezza ancora più ilare, senza renderci conto di arricchirla ridendo, farla più colta.

 

E qui mi fermo, poiché la lista di quanto abbia procacciato ispirazioni da certi imperdibili attimi di quel genere di commedia, per la mia vita e per la mia ben più umile carriera, sarebbe ancora lunga. Tante le piccole, grandi sfumature del carattere di un uomo assolutamente insolito, un uomo di spettacolo, ma anche schivo e modesto. Un uomo ironico e consapevole delle distorsioni dei nostri tempi. Regista innanzitutto del suo vivere, dell’amare il suo lavoro, nel raccogliere l'ammirazione della gente che ha condiviso il suo percorso. Memorabile la risposta alla curiosità su ciò che avrebbe voluto imprimere come suo epitaffio: non sono mai andato alle Maldive.

 

È la storia di un uomo in sei parole.Nella scelta di Monicelli di volersi appartare dal mondo femminile all'avanzare della vecchiaia v’è un creativo e coerente gesto di un uomo che ama se stesso: - per poter vivere lontano dalla donna apprensiva, infermiera nell'animo, che tende a farsi carico di ogni bisogno presunto dell'uomo, affievolendone la fantasia del vivere.. -. Un isolarsi così da doversi tenere attivo, obbligato a badare a se stesso, ma libero nel gesto e nel pensiero, senza oziare, per vivere di più, come probabilmente è stato.

 

Profondo il suo ricordo e il rispetto per quei tanti mostri sacri del cinema di un tempo superato dai tempi, quando vi era lavoro per tutti, un cinema fatto di stima, di amicizia e di buon gusto. Non mi sento di definirlo un lavoro sorpassato. Ultimamente, quando mi imbatto in una delle sue opere, non mi stanco di scovare tra le righe, sublimi sfumature che ancora oggi sono un’ icona di pregi ed i difetti tipica del nostro poliedrico, tristemente comico, popolo italiano. Miniera ricca, sebbene forse oggi un po' esaurita, di grottesca ironia dalle radici popolari e provinciali. La presunzione di ogni artista è il lasciare dietro sé tracce che non moriranno mai. L'opera di Mario Monicelli è un durevole, amichevole attentato artistico dedicato alle tante e divertenti debolezze del vivere, ma qualcos'altro resterà per sempre.

 

Scegliere di far calare il sipario su di sé e trasformare la commedia della vita in un apparentemente tragico, ultimo gesto, non potrà che rimanere come una grande eredità espressiva, il più sublime dei finali, un omaggio al realismo, in tema con quel deliberato immolarsi di Gassman e di Tognazzi, nel commovente epilogo de: La grande guerra.In quel meditato, solitario volo dal quinto piano, immagino il maestro intento ad un'abile regia, tecnicamente assorta nello scrivere i titoli i coda della sua più breve, impegnativa opera d'arte e per ultimo: la parola fine.La presunzione della quale sono afflitto, in questo caso vorrebbe giudicare l'estremo gesto come sommo capolavoro di un uomo che ha avuto la fortuna di potersi proporre come si è, senza mascherare il proprio carattere, scegliendo la libertà di essere e dire senza camuffarsi, fino all'ultimo istante, fino all'ultimo colpo di scena di copione scritto per sè e per nessun altro.

 

Umile, terrena, terribile, solitaria e pur bellissima cornice dedicata alla libertà fino in fondo. Libertà di come, dove, quando morire arrendendosi solo all'inevitabile forza del male. Abbandonare la scena lasciando ben lucidamente espresso il destino dei propri resti, continuando ad appartenere solo a se stesso anche in quel breve tempo dedicato alle esequie, a quel dopo che troppo spesso si consuma trasformandosi in un fugace, spettacolare, ambiguo e sovente, ipocrita evento, non so che cosa suscita in voi, ma io ne provo grande ammirazione e siderale rispetto.

 

Nella mia fantasia romantica e un po' retrò, contraddicendomi in qualche mio credo, ma lasciandomi cullare dalla stravaganza di inventarmi qualche soggetto, un nuovo copione, adesso immagino nell'aldilà una grande festa. Mancava lui soltanto, il burbero regista. Immagino Gassman e Totò, Aldo Fabrizi, Walter Chiari e la Magnani, Mastroianni, Manfredi, Alberto Sordi e Adolfo Celi, immagino loro ed altri più modesti teatranti, bellamente comandati e pronti a fare danno nell'aldilà.

Dovranno stare attenti gli angeli e i santi, potrebbero subire uno scherzo od un motteggio in ogni istante. Mi immagino una grande commedia all'italiana che fu, lassù, nell'alto dei cieli, mentre qui da basso, così come espresso senza peli sulla lingua dal maestro e dal suo “caratteraccio”, rimangono a far del cinema, molti cialtroni.

 

cms.

Un piccolo articolo scritto per un giornale di provincia, uno tra i tanti: opinioni e voci della gente che protesta, uno stop di parole.

Gazzette: un contesto ideale per raccontare piccole storie d'una certa importanza.

 

BARBARESCO. L'ascensore, la torre, la valle.

 

Le colline e le valli delle Langhe, per chi s’avvicina con attenzione al loro paesaggio, rappresentano un’incredibile sequenza di armoniosi lavori del tempo.

Sono alture docili e suggestive, disegnate dal mare, dal vento, dal tempo e dalla loro storia, fino a essere consegnate ai giorni nostri come un dono d'arte che solo la natura sa scolpire, un regalo modellato da un gioco quasi divino. E poi furono gli uomini a installarsi in queste terre, impadronendosi d’un habitat ottimale e di una fertile, quasi unica, ubertosa terra. Lunga è la storia di queste contrade, segni maestosi ed evidenti del trascorso dell'uomo sono i castelli sopravvissuti alle angherie del tempo e che, ancor oggi, identificano i paesi più significativi di queste vallate dai panorami perfetti. I castelli spuntano in controluce tra i raggi del tramonto e le nebbie degli autunni, paiono sagome di ancestrali mostri nati lì, invincibili guardiani dei profili agresti che, dall'alto delle torri, controllano filari di vitigni, oro di queste terre, patria di prestigiosi vini. In questo panorama rurale e medievale, ultimamente l'uomo s’è comportato male.

 

Cedendo al subdolo richiamo del profitto, la modernità si è mescolata troppo in fretta col fascino logico e storico di architetture d’altri tempi: antichi mattoni simboli di popoli e culture, sapienti custodi della memoria. Gli antichi borghi sono stati circondati da schiere di svelte villette, capannoni, centri commerciali e grossi condomini che spezzano l'occhio e la poesia di luoghi che, ben altro avrebbero meritato, se gestiti con sapienza francese o con orgoglio scozzese, o ancor meglio, con quell'antico gusto italiano rinascimentale che sembra smarrito per sempre.

 

Tra tante malefatte ve ne sono alcune che invitano a soffermarsi per il loro stridere. Tra esse, una su tutte: il nuovo ascensore che si arrampica sui 36 m della torre di Barbaresco, centro storico caratterizzato da quella sagoma eretta che vede e controlla la valle del Tanaro e altrettanto da lontano, spicca imponente. Barbaresco; il nome del suo vino canta la storia d’un luogo strategico a picco sul fiume: dapprima abitato da tribù liguri e celtiche, quindi avamposto romano e infine fortezza medievale di cui rimane la sola torre.

 

Qualche tempo addietro, transitando dalla valle mi sono accorto che sul fianco del torrione era nata una cosa nuova, diversa, direi quasi interessante. Amo questi luoghi, ne sono all’incirca un turista: io scrittore, poeta, ma soprattutto architetto, non ho saputo resistere. Incuriosito, sono andato a vedere quel manufatto così strano da sembrare quasi originale: era lui, l'ascensore. Prima di condannare ho iniziato a riflettere. In architettura l'inserimento di moderne tipologie a rinnovare aree in antiche strutture è pratica non solo concessa, ma alcune volte auspicata e che, se messa in opera da indiscussi professionisti, spesso produce magnifici effetti architettonici. Di certo non è questo il caso.

 

Non so di cosa avesse bisogno quella torre, ma di sicuro non d’un tale innesto, non di un grosso ascensore per salire 36 m più in alto e da lì scoprire che, il panorama è sempre lo stesso. Il gusto personale è un fattore soggettivo, ma il concetto di bello è stabilito da regole oggettive quasi matematiche. In questo caso si tratta d’un intervento malfatto, brutto, forse non nell'ispirazione, ma nel risultato sì, eppure, approvato. I 1000 anni della torre non sentivano il bisogno di un'idea che le rinverdisse fascino, se li portava molto bene così, icona del paese, testimonianza del tempo che fu, solida e finora, ben conservata.

 

La torre di Barbaresco vede la valle e la valle vede la torre, la torre e adesso: il suo goffo ascensore metallico aggrappato sul fianco. Le colline protestano, il fiume è triste, la gente borbotta e la torre non ha più lo stesso sguardo. Barbaresco forse diventerà nota per il suo ascensore, ma per questo bisognerà aspettare altri 1000 anni. Nel frattempo, esprimendo il pensiero della gente di buona volontà, se fossi io a decidere per l'onore e per la storia, quell'inutile esperimento inizierei a smontarlo adesso. Le colline riconosceranno l’antico guardiano, il fiume tornerà a sorridere, il paese sarà certo più contento.

 

Tutti possono sbagliare a questo mondo, importante è non farne abuso. L'architettura è l’antica madre di tutte le arti: non è facile metterle mani addosso a lasciar traccia del proprio passaggio senza rischiare di far danno. La soluzione è semplice: così come l'ascensore è nato lo si può fare morire. Lo so, sarà sperpero di sostanze, ma la storia insegna che l'uomo, spesse volte ha fatto uso ben peggiore delle proprie risorse. Che la torre di Barbaresco ritorni libera! Almeno lei in questo Bel Paese sempre più maltrattato, cosparso di bruttezze, obblighi e divieti, sempre più svenduto alla parte meno culturale e artistica di sé.

 

Che la torre torni libera d’essere se stessa; di sicuro la sua memoria millenaria brontola, dissentono gli spiriti d’antichi muratori e architetti militari nel vederla trasformata in un giocattolo per piccole emozioni. A meno che io mi sbagli e che sia l'inizio di una nuova era. Metteranno presto le montagne russe al Colosseo, un altro ascensore sulla torre di Pisa, un parco giochi nell'arena di Verona e così via. Non vi è limite alla creatività umana e la storia insegna, nemmeno al suo prendere abbagli. E se proprio la si vuole una costruzione ardita a Barbaresco, un’dea tosta ce l'avrei, ma chissà cosa ne penserebbe Italia Nostra?

 

Carlo Mariano Sartoris, architetto, giornalista e novelliere

Recensione: esempio da inviare ai giornali per una mostra o un evento

 

Gabriele: il ritratto astratto di un uomo e di un artista

 

Talvolta è stupefacente riscontrare quanto può essere ampio l’orizzonte di un essere umano. Chi ha la fortuna d’avere incrociato la strada di Gabriele, e poi, Kipewa (pseudonimo dedicato a sé, prima ancora che agli amici), non può che aver arricchito animo e pensiero di nuove sfumature: gradazioni del vivere, colorazioni forti, tinte spalmate in ogni incontro con genuina, sapiente e rara attenzione al vero e più bel senso della vita.

Gabriele, altresì Kipewa, è uomo e miniera d’umanità, di sincerità, di schietti e naturali, sani ingredienti di cosciente appartenenza, di particolari insoliti in questo mondo di fatue luci e nervosi scatti, di soldi, cose e fretta.


Gabriele è amicizia vera, è quel gesto che non ti aspetti, ma che avresti voluto ricevere da sempre. Kipewa invece, è istinto che si fonde con la madre terra, fuggendo decadenti moine di questa grigia civiltà, avara d’emozioni forti, antiche e maschie. Kipewa suona il sax, vola come un falco giocando dentro l'aria, cavalca sulle spiagge, si immerge tra il ghiaccio e nell'acqua si sprofonda. Kipewa è fuoco generoso che scalda intorno a sé, regalando pensieri e momenti intensi. Gabriele è uomo dal gesto rapido e deciso, è uomo costruttivo ed esigente, talvolta forse, può apparire un po' selvatico, ma è dura vivere con un cuore pellerossa e la testa in volo, immerso in compromessi con un mondo tortuoso, nervoso, sempre più disperso.


Poco umanesimo, poco spazio mistico nel giorno del nostro tempo; non solo per lui, ma tutti noi, imbrigliati, sedotti, lusingati ostaggi di questa bella civiltà. Kipewa lo sente, ne soffre e non ci sta. Dipinge con il grido delle mani, estirpa forme erotiche e sensuali da vecchi legni rianimati a nuova vita, graffia il cartone con il carboncino per imprimere cavalli e voli di uccelli, corpi di donne, profili di antenati indiani e poi, li condivide come di solito fanno gli artisti. Gli artisti: non sono veramente tali se non hanno sguardi profondi, autentici, sofferenti, passionali, orgogliosi e soli.
Arte astratta: icone da scoprire, emozione, soffio di cultura che penetra e rimane, affezione capriccio, desiderio, pezzo d’arredo, illusione, seduzione, amore; talvolta, senza spiegazione.


Possiedo un'opera di Kipewa, è nella mia stanza dal 2007. Grafica pura, scultura o pittura, poco importa cosa sia: compagna del tempo, non smette di fare a dialogo con l’immaginazione e con la mia più libera natura.
Gli artisti amano vendere, chi lo nega non è sincero, lo fanno quasi soffrendo, ma sapendo che, altrove, avranno impreziosito un luogo e altra gente con sfumature rare: emozioni spalmate con mistica attenzione al vero e migliore senso della vita. Bello scoprirle! È dare un senso al senso del possesso! Possedere un quadro vuol dire avere parte dell'artista. Gabriele lo sa. Sa quanto Kipewa, uomo di questa terra, del cielo e dei ghiacci, possa scaldare il cuore del popolo degli uomini. Pittura, arte, materica, che mistica magia!

Altra storia tragicomica (facente parte di una serie di pubblicazioni)

IL CHIMICO TRASPARENTE

(Le piccole cattiverie d'un racconto grottesco)

 

Il chimico ci stava lavorando da vent'anni, aveva consultato libri di antichi segreti che odoravano di muffa, libri ingialliti scritti in tempi remoti da arcaici alchimisti.

Il chimico aveva un sogno nel cassetto: trapassare il solido fittizio, entrare dentro il vuoto della massa materiale, farsi beffe della luce e trasformarsi in ciò che si è ma non si scorge mai: il senza contenuto che non si può vedere, ma c'è.

Il chimico faceva esperimenti per penetrare l'atomo, minuscolo elemento di cui il tutto è costituito. L'atomo: nucleo, elettroni, vorticose rotazioni, magnetismo e mistiche pulsioni, invisibili energie, misteri siderali. L'atomo, corpuscolo fatto d’infinito, immenso, minuscolo, calamitato spazio vuoto.

 

Il chimico era timido, poco piacente, non sapeva fare sesso, ma era intelligente e aveva un progetto non del tutto matto: sparire, occultarsi, diventare l'altra parte di se stesso, esistere mostrando solo il vuoto e continuare a vivere in modo astratto.

Il chimico voleva diventare trasparente per poter fare tutto quello che non si dovrebbe alla luce del sole e agli occhi della gente. Il chimico voleva rubacchiare, voleva toccare le donne senza farsi vedere, prendere il treno senza pagare, e poi, rimirare Maria,   bella signora della quale s’era invaghito, la moglie di Giulio, il suo migliore amico, guardarla spogliarsi quando andava a dormire; insomma, comportarsi da maiale.

 

Il chimico era arrivato ad un punto cruciale: dopo tanti esperimenti, stava per ingurgitare una ripugnante pozione. Nitrocarbonazza 12 mg., pappa&ciccia, limatura di Stradivari (poca poca), componente H, uranio impoverito al 3%, benzomanzoziadipina 200 mg., il tutto aromatizzato alla candeggina, per camuffare l'odore.

 

Per tracannare un simile intruglio ci voleva coraggio; il chimico ne aveva poiché lo fece di colpo, evitando l'assaggio. Dopo aver trangugiato il miscuglio, nella stanza vi fu un boato cupo come se avesse digerito qualche elefante, seguito da un tanfo rivoltante, ma il chimico era sparito, non si vedeva niente, era diventato trasparente!  

 

Per essere sicuro del risultato il chimico passò mezz'ora nel rimirarsi in una superficie riflettente. Il fatto che non si vedesse niente era la prova evidente che l'esperimento era veramente riuscito. Lo specchio riflette, e per questo, non mente.

 

Niente è perfetto, ogni più mirabolante invenzione, presenta sempre qualche insopprimibile difetto. Il chimico era invisibile, questo era un fatto inconfutabile, ma sbattendo contro un mobile in noce nazionale, l'ombra si fece male e il piccolo lamento che venne fuori naturale, suonò nella stanza, segnale sonoro della sua presenza.

 

Se voleva passare inosservato, il chimico avrebbe dovuto moderare il fiato.

Secondo i calcoli la lurida bevanda avrebbe avuto un effetto prolungato, solo un antidoto di sua conoscenza lo avrebbe riportato al primordiale colorito, un intruglio da fare stare male, una pozione infernale da usare solo in caso disperato.

 

Il chimico non era fesso e tutto questo lo aveva ben metabolizzato quindi, dopo aver bevuto un bel bicchiere di bicarbonato, giusto per digerire quel lurido disgusto, prese il cappello, si mise la giacca (sparivano anche loro), e andò fuori, chiudendo l'uscio.

 

Per le scale incontrò l'insopportabile megera del piano di sotto, quella del barboncino che abbaiava tutto il giorno, iniziando dalle sette del mattino. Per provare gli effetti immediati della magica pozione le affibbiò un invisibile, ma doloroso calcio in mezzo al panettone. Lei lasciò cadere il cane che annusando l'aria con quel naso da tartufi, dopo aver captato il chimico dov’era, iniziò a ringhiare e poi, lo morse sul polpaccio restituendogli il favore, procurandogli un acutissimo dolore. Il chimico fuggì giù dalle scale badando bene a non strillare, prendendo nota della severa lezione. In futuro avrebbe dovuto fare molta più attenzione.

 

Appena fu in mezzo alla strada il problema si trasformò in moltiplicazione. Arrivava gente da ogni direzione, gente di fretta, gente che schizzava come un razzo, a piedi, in macchina ed in motocicletta. Fare lo slalom senza farsi investire era un'impresa degna di Alberto Tomba, nessuno lo vedeva e lui non era ancora esperto (che fa rima con Alberto). Per spostarsi senza farsi niente il chimico doveva camminare molto rasente, accanto ai muri e attraversare la via camminando sulle strisce non era una garanzia. Dopo aver schivato un’autobotte e un paio di vetture, il chimico si fece furbo ed imparò il trucco: viaggiare sempre accanto a qualche vecchietta, e dopo un po', tanto per provare un'emozione, garantito dall'anonimato, si mise a trafugare dentro alla borsetta di una placida nonnetta comportandosi da vero mascalzone.

 

Alla fermata del tram, indugiava una ragazza con le lunghe gambe offerte al bruto da una minigonna che era un attentato. Il chimico si fermò di botto, poi le passò una mano scivolando sul didietro con un certo tatto. La procace signorina dava segni di apprezzare il tutto e il chimico comprese indagando con il dito: si trattava di un piacente, provocante travestito.

 

Il chimico si allontanò deluso e facendo molta attenzione ad evitare un ciclista, un taxi e un furgone che correva come fosse in pista, prese un'altra direzione.

Ai giardini pubblici si sedette accanto a una coppietta e mentre il giovanotto baciava una brunetta lui prese a palparla tra le gambe e sotto la maglietta, tanto che quel bacio quasi innocente si trasformò in un orgasmo rumoroso e spudorato, poi bloccato dall'arrivo di un agente.

 

L'avventura trasparente mostrava molti lati, qualcuno tragico, qualcun altro divertente, ma tolti gli spiccioli scippati alla nonnetta, occultato nell'invisibile esistenza, il chimico se la spassava meno di quello che sperava.

 

Intanto venne sera e il chimico si appostò lungo la via della dimora di Maria che rientrava a quell'ora e l'aspettò lascivo. Più furtivo del vento, sgusciò dentro, nella casa della ignara donna che si tolse scarpe, maglia e gonna. La signora si tolse tutto, si fece la doccia e si asciugò i capelli, la pelle e la zona riccia. Era proprio belloccia!

Il  chimico trasparente la guardava eccitato ed affamato, anche perché la signora Maria, che circolava nuda e provocante, nel frattempo aveva sfornato una fumante pietanza e lui era a digiuno: di sesso da sei anni, e di cibo, da più di nove ore. Lo stomaco iniziava a fare qualche rumore; rischiava di farsi smascherare.

 

Sul più bello, qualcuno suonò il campanello, ma non era Giulio, che era partito: colpo di scena garantito! Maria aveva un amante e il chimico si sentì tradito. Dal suo mondo trasparente e vuoto assistette ad un abbraccio appassionato, alla migrazione verso il letto, ad un primo atto dove vide di tutto e poi, lo sconosciuto chiese scusa e si diresse verso il bagno. Fu l'impulso di un momento, gli andò appresso e appena l'uomo prese posto sopra il cesso, gli calò sul cranio un colpo violento, quindi lo rimosse, fece pipì e si diresse a luci spente verso Maria che attendeva impaziente. Al buio non si vede niente, ma il niente che non appare, eroticamente lo si tocca e lo si sente.

 

Il chimico saltò sul letto e si fece sotto, esaltato dalla violenza che aveva perpetrato, inebriato dall’astinenza, innamorato della donna e stregato dalla sua ignuda presenza, stupito dall'infedeltà inattesa e anche un po’ incazzato.

 

L'insieme diede origine ad una relazione raramente più esplosiva e la signora Maria, che nelle cose di sesso si dava a più non posso, per una volta cedette alla foga inarrestabile dell'ombra che le saltava addosso, chiedendo dopo un paio d'ore: - per favore amore, pausa, non ce la faccio più -. Addormentandosi di botto, russando sollevando il petto e poi girandosi, mostrando il suo culetto.

 

Il chimico invisibile era molto soddisfatto: Maria in ogni posizione, sopra e sotto, anche se gli era costata una cattiva azione, ma nessuno ne avrebbe mai saputo niente, e poi, quell'adulterio andava punito in qualche modo, povero Giulio, povero amico.

La femmina dormiva e l'appetito reclamava. Bastava riscaldare il pasto: pasta al pesto, ossobuco e barbaresco, un miraggio mica da poco per l'invisibile scienziato.

 

Rimpinzarsi con un cadavere nel bagno e la donna stremata che ronfava in camera da letto, invisibile autore di ben più di un misfatto nella casa del suo più caro amico, era l'apoteosi di ogni più morboso, sinistro e nero, cattivissimo pensiero.

 

Celato nella parte più invisibile di sé, il chimico, si sentì invincibile, mostruosamente appagato dal furto, dal sesso, e dall'omicidio appena commesso, lasciato a giacere proprio accanto al cesso e che sarebbe rimasto un mistero.

Questo non sarebbe stato che l'inizio di un futuro depravato.

 

Si aprì la porta, Giulio entrò per verificare un suo legittimo sospetto, accese la luce, vide la donna scompigliata e spoglia, poi scorse un uomo e gli sparò dentro al ginocchio, quindi nel petto e infine, diritto tra le sopracciglia. Il chimico non morì subito, ebbe il tempo di pensare che la somma di adrenalina, tannino, buon vino, proteina... non era certo sufficiente… all'antidoto mancava più di un ingrediente…

 

Il mistero del ribaltamento tra spazi vuoti e pieni, così da essere tornato ben visibile, seppur poco attraente, ed essere ammazzato, era semplice, quanto inquietante.

Mai sottrarre il portafoglio a una pensionata esperta in magia nera, potrebbe farvi una fattura: occhi di ranocchio, polvere di mummia, muco di lumaca, spremuta di sasso d'oriente, brodo di dado e componente zeta, e "puff", voi svanite nel nulla. A meno che un nulla non lo siate già, allora sarà l'inverso, così vanno le cose nei segreti dell'universo e in certe stregonerie dell'immortalità.

 

Questo il chimico non lo seppe mai, morto e sepolto con pochi onori, ben visibile ai becchini scuri e ignari della sua invenzione che farebbe gola a moltissima gente infelice, invidiosa e innocente soltanto per vigliaccheria latente.

L’anziana signora che l'aveva presa a male fu l'unica a gettare un fiore durante il funerale, ma nessuno si accorse di niente, fra i tanti vestiti che indossava normalmente, la vecchia morte aveva scelto di venire addobbata col coordinato trasparente.  

 

Le prime frasi dello scrittore: l'inizio del romanzo autobiografico che ha segnato il mio esordio e un breve estratto da un capitolo del secondo

 

IL QUINTO LATO DEL QUADRATO

 

Il quinto lato del quadrato è quello che non esistese, 

non dentro alle speranze, ai desideri ed alle disperazioni

di un uomo in trappola.

Passando attraverso il quinto lato forse si può scappare,

tornare a vivere, tornare ad essere,

ma il quinto lato non esiste.

Il quinto lato bisogna inventarlo, con un sogno,

un colpo di genio, con un tratto di matita.

Con una mossa imprevedibile del pensiero e del cuore.

Allora forse….

 

 

Dedicato a ogni istante del tempo che và.

Non sprecatelo mai.

 

LA SERA DEL GIORNO PRIMA 

 

   Ancora oggi, quando le vecchie immagini affiorano dalle nebbie del passato, la nostalgia scivola a ferirmi il ventre. In quei momenti il ricordo si fa crudo e mi scaraventa a quella suggestiva, ultima sera di troppi anni fa. Era un sabato, il 29 novembre del 1986.

   Quasi come fosse adesso, mi rivedo laggiù, in quel luogo e in quel tempo. Mi riconosco giovane, intento com’ero ad assaporare l’estremità languida e bigia del giorno d’inverno.

 

   Rivedo un uomo dai lineamenti ben fatti, svelto e sorridente, disinvolto, spigliato, il viso schermato dalla barba curata; tiepida peluria che, un po’ per pigrizia, un po’ per comodità, lasciavo crescere nei periodi più freddi dell’anno.

   

Mi rivedo indaffarato, sornione, sicuro, tranquillo, e assaporo di nuovo il momento lontano. Mancava un mese al compimento del mio trentatreesimo anno di età e io, capricorno caparbio, ignorando il destino, tratteggiavo forme su un foglio di carta; gli occhi attenti ai movimenti attorno.    

 

   Mi piace quell'uomo e apprezzo il suo gesto, mentre sento salire alla gola un velato rimpianto. Rivedo dov’ero a quell’ora: sedevo accomodato sulla sedia in plastica color verde prato, la mia, un modello ancora in voga adesso. In quel momento bellissimo, ero del tutto a mio agio, tranquillo, felice e appagato dal vivere, circondato da un gioco di tinte che pareva fiabesco, pur essendo soltanto un negozio.

   Mi rivedo col braccio sinistro appoggiato sull'elegante scrivania in cristallo curvato. Ero amabilmente impegnato a tracciare un disegno dalle forme essenziali, mentre attorno, il chiacchierio degli altri animava l’aria.

 

  Quel sabato sera, così come capitava spesso, ero circondato da personaggi estroversi e cordiali. Innanzitutto: dai miei due collaboratori. Il primo era Leonardo, un vero amico e un compagno di lavoro, di svaghi e di pensieri, anch'egli architetto con molte aspirazioni rivolte al futuro.

 

  Uomo affabile e rassicurante, di qualche anno più maturo di me, “Leo” conosceva bene il mestiere, aveva buon gusto e padroneggiava un invidiabile ottimismo; una calma ultraterrena, quasi snervante. In apparenza non si arrabbiava mai, ma quando si lasciava sfuggire musicali improperi, dava segni d’essere anch'egli soggetto a qualche turba interiore, fugando i miei dubbi sulla sua appartenenza al genere umano.

 

   Metodico, flemmatico, ma non indolente, barba corta e lavorata, alto, ginnico, occhio astuto, gesto misurato, tipo di bell'aspetto, Leonardo scherzava con gusto, rideva facile, ma senza eccedere mai, aveva stile, un contegno sicuro, parlava a modo ed era un uomo con il quale andavo d’accordo.

 

   Leonardo però, aveva i suoi difetti: a volte era ripetitivo, pantofolaio e, a quel tempo, quando lo facevamo tutti, fumava troppo e metteva cenere ovunque. Sotto giacche di buona fattura poi, non mancava mai di indossare terribili gilet color pastello dichiaratamente confezionati a mano dalla sua mamma, eppure, nonostante il conflitto di tessuti e di tinte, manteneva un portamento raffinato e quasi elegante. 

 

Da "VERSO IL SOLE NEL SEGNO DEL LEONE" 

 

CAPITOLO - IN FUGA CON JACKY -

 

   Fissando oltre i vetri della finestra appannata, ora che quel giorno appartiene al passato, ora che gli alberi spogli svaniscono tra un muro molle di nebbia ed il mondo pare che finisca lì, ora che i colori sono tristi, umidi e pochi, ora che gli avvenimenti che narro paiono estratti da un altro pianeta, l'impulso a ricordare quel giorno e scriverne è una necessità che mi pulsa dentro e che riscalda il cuore.

 

   Quando quel giorno mi ritorna in mente, la prima cosa che rivedo è quella limpidezza del cielo ed il Sole suo padrone...Il cielo, spazzolato dal vento del nord, è stupendamente profondo e blu, e le poche nuvole bianche che si rincorrono inciampando tra le cime maestose delle Alpi Graie sembrano giocare con il profilo delle montagne, allungandosi e scomparendo per poi riapparire, tonde o antropomorfe, una vallata più in là. Il motore sembra affamato di strada e gira rotondo e regolare mentre mastica l'infinita tagliatella grigia di quell'autostrada spalmata in fondo alla valle. Il panorama scorre alla nostra stessa velocità, lento, alto e profumato di resine.

   Così limpido, profondo e trasparente, lo scenario è uno spettacolo di quelli rari da queste parti e gonfia l'occhio, lo spirito ed altri sensi...

 


Musiche: Blues project

 

 

Carlo Mariano Sartoris - scrittore, giornalista, novelliere

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